Alcune riflessioni sulla campagna elettorale 2013
di Oliviero Ponte di Pino
La campagna elettorale corre verso il rush finale e si concentra su temi chiave, promesse sempre più mirabolanti e insulti via via più feroci, mentre tutti sanno benissimo che dal 25 febbraio, per mettere insieme il nuovo governo ed eleggere il Presidente della disastrata Repubblica, sarà necessario iniziare a trattare proprio con gli avversari ferocemente insultati fino a pochi giorni prima.
In questo clima, è difficile che
temi ritenuti di secondo piano possano rientrare sotto i riflettori. La cultura
continuerà a restare ai margini, anche se diverse forze politiche dichiarano di
considerare strategico l’investimento in istruzione, cultura e ricerca: per
esempio, Antonio Ingroia, candidato premier per la coalizione Rivoluzione
Civile, che nel suo sintetico decalogo proclama «Vogliamo che la cultura sia il
motore della rinascita del Paese». Qualcuno, come SEL, prova addirittura a dare
alcune indicazioni più specifiche. Qualcun altro azzarda invece svolte epocali:
nel programma del Pdl, alla voce «Cultura, sport e spettacolo», si premette che
«non può esserci un taglio indiscriminato delle risorse pubbliche, ancora
essenziali nel settore, ma neppure una irragionevole chiusura all’apporto dei
privati”; ma poi arriva la proposta shock: “separazione tra cultura e
spettacolo nell’assegnazione di risorse pubbliche” (per la cronaca, nel corso
di un dibattito a “Otto e mezzo” su La7, quando la montiana Ilaria Borletti
Buitoni chiese conto di questa proposta all’esponente leghista Matteo Salvini,
si sentì rispondere qualcosa come “Ma lei ce l’ha con la Lega? Non avete le
vostre proposte da fare?”).
Ciò nonostante, la cultura non è
davvero entrata nel dibattito sul futuro del paese:
Nell'ultimo mese, dice l'archivio
Ansa, Mario Monti si è guadagnato 2.195 titoli dei quali due abbinati alla
cultura, Berlusconi 1.363 (cultura: zero), Bersani 852 (cultura: uno), Grillo
323 (cultura: zero), Ingroia 477 (cultura: zero), Giannino 74 (cultura: zero).
Vale a dire che in totale i sei leader in corsa hanno avuto 5.284 titoli di cui
solo 3 (tre!) che in qualche modo facevano riferimento alla cosa per la quale
l'Italia è conosciuta e amata nel mondo. (Gian Antonio Stella, “Corriere della
Sera”, 2 febbraio 2013)
Gaetano Pesce, L'Italia in Croce,
2011.
A questo sostanziale
disinteresse, corrisponde una prassi politica chiara: solo per restare al
settore del teatro, continua a mancare una legge (sempre promessa, sempre
discussa, destinata regolarmente ad arenarsi nelle morte gore del Parlamento,
legislatura dopo legislatura, da decenni); il FUS, taglio dopo taglio, ha perso
dal 1985 a
oggi oltre il 65% del proprio valore, dissanguato da una progressiva erosione,
fino al recente taglio operato dal Governo Monti in “modalità provvisoria”,
proprio nel bel mezzo della campagna elettorale, senza suscitare particolari
resistenze o reazioni. Per non parlare dell’eterno pasticcio della SIAE, dei
tagli operati dagli enti locali, di legislazioni e regolamenti regionali in
contrasto con le direttive che arrivano dal MIBAC... A chiudere ogni
discussione, la spending review che lascia presagire solo altri tagli.
Tutti ammettono che la cultura
rappresenti un settore strategico per l’identità nazionale e la crescita
civile, ma all’atto pratico viene considerato un lusso, una spesa voluttuaria,
un’attività di piantagrane che è meglio rendere inoffensivi. Dunque è la prima
voce da tagliare: la spesa pubblica nel settore della cultura è drammaticamente
calata in questi anni: rappresentava lo 0,39% del Pil prima del 2008, siamo ora
allo 0,11%, mentre la Germania investe nel settore l’1,35% del PIL; in termini
di spesa pubblica, siamo a un misero 0,19% del totale. La tendenza è chiara, i
risultati si vedono: nelle classifiche internazionali, l’Italia scivola da anni
all’indietro...
Perché la cultura è un settore
strategico anche per l’economia e lo sviluppo, e senza istruzione, ricerca e
cultura nel mondo globalizzato non può esserci sviluppo. Gli occupati nel
settore artistico-culturale sono 585.000, che salgono a oltre 1,4 milioni
considerando l’intero comparto della “industria culturale e creativa”. Gli
occupati nel comparto biblioteche, archivi, musei e altre attività culturali:
circa 38.000 persone tra cui pochissimi «giovani», visto che l’età media del
personale è di 58 anni. Una indagine commissionata nel
2009 da Unioncamere e Symbola ha stimato che il comparto culturale valga il
5,4% del Pil italiano, ma dando una definizione estensiva del sistema delle
filiere culturali e creative si arriverebbe al 15%.
Per Confcultura e Federturismo
Confindustria (http://www.confcultura.it/pdf/204.pdf ,
http://www.federturismo.it/it/i-servizi-per-i-soci/news-ed-eventi/news/132-2009/1320-scarica-il-rapporto-su-qarte-turismo-culturale-e-indotto-economicoq),
in Italia (sempre nel 2009) il PIL culturale sarebbe invece pari al 2,6%
dell’intero prodotto lordo nazionale, una percentuale in linea con quella della
Germania e di altri Paesi europei, ma che si colloca molto al di sotto di
quanto si riscontra in Gran Bretagna (3,8%), dove è molto presente l’industria
creativa, e Francia (3,4%). Anche per fatturato generato l’Italia, con poco più
di 100 miliardi di Euro, si colloca sotto la Gran Bretagna (€ 190 mld), Francia
(€ 166 mld) e Germania (€ 158 mld).
Un secondo aspetto critico
riguarda il ritorno economico dell’investimento in cultura. Ci vantiamo della
ricchezza del nostro patrimonio e tessuto culturale: sempre a partire dai dati
di Eurostat e Federculture, abbiamo nel nostro paese 4.340 musei, 46.025 beni
architettonici vincolati, 12.375 biblioteche, 34.000 luoghi di spettacolo, 47
siti Unesco. Qualcuno si vanta che “il 70% del patrimonio culturale mondiale ce
l’abbiamo nel nostro paese”.
Il problema è che non sappiamo
valorizzare questa straordinaria risorsa, nemmeno in funzione turistica. Il
rapporto di PricewaterhouseCoopers “Il valore dell’arte: una prospettiva
economico – finanziaria” (http://www.pwc.com/it/it/publications/press-rm/docs/pr-PwC-il-valore-arte-2009.pdf)
evidenzia un forte gap competitivo nel ritorno economico del patrimonio
artistico-culturale italiano rispetto agli altri paesi e una scarsa capacità da
parte del Sistema Italia di sviluppare il potenziale del nostro paese: il RAC,
un indice che analizza il ritorno economico degli asset culturali sui siti
Unesco, mostra come gli Stati Uniti, con la metà dei siti rispetto all'Italia,
hanno un ritorno commerciale pari a 16 volte quello italiano; il ritorno degli
asset culturali della Francia e del Regno Unito è tra 4 e 7 volte quello
italiano.
E’ ovvio che non è possibile
ridurre la cultura ai suoi aspetti economici, ma questi sono segnali troppo
forti per essere ignorati. Siamo di fronte a un disastro, testimoniato da mille
altri indizi: i teatri che chiudono, Pompei che si sbriciola, i musei che
tengono i capolavori nelle cantine, l’università che perde iscritti...
Di questo disastro, la società
civile si sta cominciando ad accorgere. Infatti sono numerose le iniziative che
su vari fronti cercano di sottolineare la centralità della cultura, denotando
una sensibilità sempre più diffusa. Un sommario elenco rende conto della
ricchezza di proposte, ma anche della dispersione e delle differenze tra queste
diverse campagne.
- il Manifesto per la cultura del
"Sole 24-Ore", lanciato nella primavera 2012: è l’iniziativa di
maggior respiro, e la più clamorosa, anche perché vede l’impegno del quotidiano
della Confindustria; gli imprenditori italiano hanno dunque compreso –
sembrerebbe – il valore della cultura per l’economia e lo sviluppo; peccato che
un governo certamente affine come quello presieduto da Mario Monti non abbia in
alcun modo accolto questa indicazione; e che anzi il suo Ministro per i Beni
Culturali, Lorenzo Ornaghi, sia stato considerato uno tra i meno efficaci degli
ultimi decenni;
- il Manifesto per la
sostenibilità culturale promosso da Monica Amari (autrice del saggio omonimo
edito da Franco Angeli, Milano, 2012) attraverso il sito
www.sostenibilitaculturale.it/: richiede un allineamento a livello europeo dei
finanziamenti ai processi culturali basato su un minimo percentuale (1% del
PIL) obbligatoriamente imposto, sulla scorta del modello del patto di stabilità
e crescita: «Siamo figli di un vulnus, che risale al trattato europeo di
Amsterdam del 1997, quello che istituì tre pilastri su cui poi si sarebbe
basata la politica dei fondi europei negli anni a venire: i tre pilastri furono
la sostenibilità ambientale, quella economica, e quella sociale. Non fu
enunciata la sostenibilità culturale».
- la proposta di legge sul libro
e sulla lettura, lanciata nel novembre 2012 a BookCity Milano dall’Associazione Forum
del Libro: “intendiamo portare avanti questa iniziativa insieme a tutti gli
attori della filiera del libro, dagli autori ai lettori, dai bibliotecari agli
insegnanti, dai librai agli editori, e a tutti coloro, singoli o associazioni,
che sono impegnati sul terreno della promozione della lettura, cui chiediamo di
collaborare alla elaborazione delle proposte, arricchendole col loro
contributo, di unire gli sforzi e coordinare le iniziative, e di vigilare su
come il nuovo Parlamento lavorerà su questi temi”;
- il progetto di un Ministero
della Creatività, presente anche nel programma di SEL: nelle parole di Nichi
Vendola, «Noi metteremo la cultura e la creatività al centro delle scelte di
politica economica del governo, superando l’attuale Mibac e tutte le deleghe
oggi sperse nei mille rivoli di altrettanti Ministeri e varando il “Ministero
per la creatività”, per uscire dalla trappola della sola conservazione dei beni
culturali ai fini della promozione turistica e introdurre l’idea d’industria
creativa»;
- le Primarie della Cultura
(ww.primariedellacultura.it) lanciate dal FAI (Fondo Ambiente Italiano) nel
gennaio 2013: quindici proposte, con la richiesta ai cittadini di sceglierne
tre, votando via internet, per farle inserire nei programmi elettorali delle
varie forze politiche; hanno votato decine di migliaia di cittadini, la
proposta che ha ottenuto maggiori consensi è quella di destinare almeno l'1%
dei soldi pubblici alla cultura, in linea con quanto accade in altri paesi
europei (la stessa proposta era stata lanciata alle Buone Pratiche del Teatro a
Mira nel 2005 dalla webzine Ateatro
(http://www.trax.it/olivieropdp/buonepratiche.asp), senza particolare esito);
- il manifesto “Ripartire dalla
cultura”, lanciato da diverse associazioni (tra cui Federculture, Aib, Icom,
Fai, Legambiente, Italia Nostra, Mab, Anai, e ANCI, Upi, Conferenza delle
Regioni, Touring Club, Federturismo) il 14 gennaio 2013 e ripreso sulle pagine
della “Repubblica” il 16 febbraio 2013
(http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni2013/2013/02/15/news/appello_associazioni_alla_politica_ripartire_dalla_cultura-52556479/);
ha prodotto “Cinque punti” da far sottoscrivere ai candidati alle elezioni;
- la proposta di istituire “un
vero ministero della Cultura”, lanciata da Ernesto Galli della Loggia e Roberto
Esposito: “La crisi in cui è entrata l'Italia con l'inizio del XXI secolo non è
(o non è solo) una crisi economica, politica, istituzionale e quindi sociale. È
prima di tutto una crisi d'identità e cioè in definitiva una crisi culturale. È
innanzi tutto venuto meno, infatti, quel fattore costitutivo di ogni identità
personale e collettiva che è la consapevolezza di ciò che lega e, legando,
tiene insieme cose differenti”. La creatività, la produzione di cose materiali,
spiega Galli della Loggia, “non nasce dal nulla. Discende per mille tramiti da un
articolatissimo substrato di gusto, di sensibilità, di idee. Nasce dalla
cultura. (..) Solo appropriandoci nuovamente di questo patrimonio, solo
ripensandolo e rianimandolo di propositi nuovi, sarà possibile riprendere il
cammino uscendo dalla paralisi odierna. Sarà possibile rimettere al centro
dell'attenzione il significato e il destino della nostra vita collettiva.
Aprirci al futuro.” (“Corriere della Sera”, 28 gennaio 2013);
- la Lettera aperta sul futuro
della cultura, pubblicata sull’Huffington Post il 5 febbraio 2013
(http://www.huffingtonpost.it/massimo-bray/la-cultura-prima-di-tutto_b_2623041.html),
con l’obiettivo di «attirare l’attenzione della politica sulla necessità di un
Ministero che si occupi anche del sostegno del contemporaneo in tutte le sue
espressioni creative. L’idea di impresa culturale è centrale: un’impresa che
produce lavoro, ricchezza e, in più, materia per riflettere e per essere (con
tutte le sue sfaccettate differenze e pluralità) (...) Un punto essenziale,
forse primario, nell’agenda del nuovo Ministero potrebbe/dovrebbe essere (...)
quello di constribuire a fissare le regole per una defiscalizzazione delle
sponsorizzazioni per le attività culturali»;
- la Lettera aperta ai candidati
alle elezioni politiche 2013 che chiede “Un voto per promuovere la lettura”
(http://legge-rete.net/e-leggiamo/), lanciata nel febbraio 2013;
- la riflessione sulla cultura
come bene comune, condotta in particolare al Teatro Valle Occupato, con la
consulenza di giuristi come Stefano Rodotà; il 14 febbraio la Commissione
Rodotà, istituita nel 2007 al fine di studiare la riforma delle norme del
Codice Civile in materia di beni pubblici
(http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.wp?previsiousPage=mg_1_12_1&contentId=SPS47624),
si è riunita proprio al Teatro Valle Occupato per proseguire il lavoro iniziato
sei anni fa;
- le dieci “Riforme a costo zero”
del Centro studi Silvia Santagata-Ebla (www.css-ebla.it), che sta monitorando
per “Il Sole 24 Ore” i programmi della varie forze politiche e associazioni in
questa campagna elettorale.
Accanto a queste iniziative, ne
sono certamente in corso molte altre, a testimonianza di una sensibilità
diffusa e di una esigenza condivisa: recuperare la centralità alla cultura,
come indispensabile motore di sviluppo civile (in accordo con l’art. 9 della
Costituzione) ed economico. Partono da associazioni, gruppi, singoli, e hanno
coinvolto decine di migliaia di persone. Tutti costoro si fanno portavoce di un
diffuso bisogno di cultura, come dimostrano l’affluenza a mostre e festival
letterari e filosofici.
Al di là del “collo di bottiglia”
della sostenibilità economica, bisogna però notare che nell’elenco compaiono
proposte assai diverse nelle intenzioni, negli ambiti di intervento e negli
obiettivi; e che queste proposte non sono necessariamente compatibili tra loro.
Molte di esse hanno suscitato un abbozzo di discussione, che però è rimasta
confinata agli addetti ai lavori (o meglio, alla cerchia di riferimento, più o
meno ampia, di ciascuno dei proponenti). L’eco nel dibattito politico è stato
pressoché nullo, anche perché non si è sviluppata una discussione comune, per
verificare la compatibilità delle proposte (e delle loro fonti di ispirazione).
Di fronte a un panorama così
frastagliato, la politica può limitarsi a lanciare – se va bene – parole
d’ordine nobili, generiche e condivisibili da tutti. E poi il Palazzo può
continuare a gestire il settore così come ha fatto finora: tagli progressivi
dettati da necessità inderogabili; finanziamenti gestiti in maniera spesso
clientelare, attraverso meccanismi corporativi; vuoto assoluto di
progettualità, se non quella dettata dalle emergenze.
Senza un fronte comune in grado
di coniugare sviluppo e cultura, di proporre e verificare le “buone pratiche
della politica”, le singole proposte – tutte dettate dalla più sincera buona
volontà e in sé meritevoli – rischiano di rimanere velleitarie. Una casta
impermeabile alle sollecitazioni della società civile, in questo come in altri
ambiti, continuerà ad andare per la sua strada, senza timori di inciampi.