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martedì 19 febbraio 2013

La buona volontà non basta: ecco perché la politica se ne frega della cultura

La buona volontà non basta: ecco perché la politica se ne frega della cultura
Alcune riflessioni sulla campagna elettorale 2013

di Oliviero Ponte di Pino

La campagna elettorale corre verso il rush finale e si concentra su temi chiave, promesse sempre più mirabolanti e insulti via via più feroci, mentre tutti sanno benissimo che dal 25 febbraio, per mettere insieme il nuovo governo ed eleggere il Presidente della disastrata Repubblica, sarà necessario iniziare a trattare proprio con gli avversari ferocemente insultati fino a pochi giorni prima.

In questo clima, è difficile che temi ritenuti di secondo piano possano rientrare sotto i riflettori. La cultura continuerà a restare ai margini, anche se diverse forze politiche dichiarano di considerare strategico l’investimento in istruzione, cultura e ricerca: per esempio, Antonio Ingroia, candidato premier per la coalizione Rivoluzione Civile, che nel suo sintetico decalogo proclama «Vogliamo che la cultura sia il motore della rinascita del Paese». Qualcuno, come SEL, prova addirittura a dare alcune indicazioni più specifiche. Qualcun altro azzarda invece svolte epocali: nel programma del Pdl, alla voce «Cultura, sport e spettacolo», si premette che «non può esserci un taglio indiscriminato delle risorse pubbliche, ancora essenziali nel settore, ma neppure una irragionevole chiusura all’apporto dei privati”; ma poi arriva la proposta shock: “separazione tra cultura e spettacolo nell’assegnazione di risorse pubbliche” (per la cronaca, nel corso di un dibattito a “Otto e mezzo” su La7, quando la montiana Ilaria Borletti Buitoni chiese conto di questa proposta all’esponente leghista Matteo Salvini, si sentì rispondere qualcosa come “Ma lei ce l’ha con la Lega? Non avete le vostre proposte da fare?”).

Ciò nonostante, la cultura non è davvero entrata nel dibattito sul futuro del paese:
Nell'ultimo mese, dice l'archivio Ansa, Mario Monti si è guadagnato 2.195 titoli dei quali due abbinati alla cultura, Berlusconi 1.363 (cultura: zero), Bersani 852 (cultura: uno), Grillo 323 (cultura: zero), Ingroia 477 (cultura: zero), Giannino 74 (cultura: zero). Vale a dire che in totale i sei leader in corsa hanno avuto 5.284 titoli di cui solo 3 (tre!) che in qualche modo facevano riferimento alla cosa per la quale l'Italia è conosciuta e amata nel mondo. (Gian Antonio Stella, “Corriere della Sera”, 2 febbraio 2013)
Gaetano Pesce, L'Italia in Croce, 2011.
 
A questo sostanziale disinteresse, corrisponde una prassi politica chiara: solo per restare al settore del teatro, continua a mancare una legge (sempre promessa, sempre discussa, destinata regolarmente ad arenarsi nelle morte gore del Parlamento, legislatura dopo legislatura, da decenni); il FUS, taglio dopo taglio, ha perso dal 1985 a oggi oltre il 65% del proprio valore, dissanguato da una progressiva erosione, fino al recente taglio operato dal Governo Monti in “modalità provvisoria”, proprio nel bel mezzo della campagna elettorale, senza suscitare particolari resistenze o reazioni. Per non parlare dell’eterno pasticcio della SIAE, dei tagli operati dagli enti locali, di legislazioni e regolamenti regionali in contrasto con le direttive che arrivano dal MIBAC... A chiudere ogni discussione, la spending review che lascia presagire solo altri tagli.

Tutti ammettono che la cultura rappresenti un settore strategico per l’identità nazionale e la crescita civile, ma all’atto pratico viene considerato un lusso, una spesa voluttuaria, un’attività di piantagrane che è meglio rendere inoffensivi. Dunque è la prima voce da tagliare: la spesa pubblica nel settore della cultura è drammaticamente calata in questi anni: rappresentava lo 0,39% del Pil prima del 2008, siamo ora allo 0,11%, mentre la Germania investe nel settore l’1,35% del PIL; in termini di spesa pubblica, siamo a un misero 0,19% del totale. La tendenza è chiara, i risultati si vedono: nelle classifiche internazionali, l’Italia scivola da anni all’indietro...

Perché la cultura è un settore strategico anche per l’economia e lo sviluppo, e senza istruzione, ricerca e cultura nel mondo globalizzato non può esserci sviluppo. Gli occupati nel settore artistico-culturale sono 585.000, che salgono a oltre 1,4 milioni considerando l’intero comparto della “industria culturale e creativa”. Gli occupati nel comparto biblioteche, archivi, musei e altre attività culturali: circa 38.000 persone tra cui pochissimi «giovani», visto che l’età media del personale è di 58 anni. Una indagine commissionata nel 2009 da Unioncamere e Symbola ha stimato che il comparto culturale valga il 5,4% del Pil italiano, ma dando una definizione estensiva del sistema delle filiere culturali e creative si arriverebbe al 15%.

Per Confcultura e Federturismo Confindustria (http://www.confcultura.it/pdf/204.pdf , http://www.federturismo.it/it/i-servizi-per-i-soci/news-ed-eventi/news/132-2009/1320-scarica-il-rapporto-su-qarte-turismo-culturale-e-indotto-economicoq), in Italia (sempre nel 2009) il PIL culturale sarebbe invece pari al 2,6% dell’intero prodotto lordo nazionale, una percentuale in linea con quella della Germania e di altri Paesi europei, ma che si colloca molto al di sotto di quanto si riscontra in Gran Bretagna (3,8%), dove è molto presente l’industria creativa, e Francia (3,4%). Anche per fatturato generato l’Italia, con poco più di 100 miliardi di Euro, si colloca sotto la Gran Bretagna (€ 190 mld), Francia (€ 166 mld) e Germania (€ 158 mld).
Un secondo aspetto critico riguarda il ritorno economico dell’investimento in cultura. Ci vantiamo della ricchezza del nostro patrimonio e tessuto culturale: sempre a partire dai dati di Eurostat e Federculture, abbiamo nel nostro paese 4.340 musei, 46.025 beni architettonici vincolati, 12.375 biblioteche, 34.000 luoghi di spettacolo, 47 siti Unesco. Qualcuno si vanta che “il 70% del patrimonio culturale mondiale ce l’abbiamo nel nostro paese”.

Il problema è che non sappiamo valorizzare questa straordinaria risorsa, nemmeno in funzione turistica. Il rapporto di PricewaterhouseCoopers “Il valore dell’arte: una prospettiva economico – finanziaria” (http://www.pwc.com/it/it/publications/press-rm/docs/pr-PwC-il-valore-arte-2009.pdf) evidenzia un forte gap competitivo nel ritorno economico del patrimonio artistico-culturale italiano rispetto agli altri paesi e una scarsa capacità da parte del Sistema Italia di sviluppare il potenziale del nostro paese: il RAC, un indice che analizza il ritorno economico degli asset culturali sui siti Unesco, mostra come gli Stati Uniti, con la metà dei siti rispetto all'Italia, hanno un ritorno commerciale pari a 16 volte quello italiano; il ritorno degli asset culturali della Francia e del Regno Unito è tra 4 e 7 volte quello italiano.
E’ ovvio che non è possibile ridurre la cultura ai suoi aspetti economici, ma questi sono segnali troppo forti per essere ignorati. Siamo di fronte a un disastro, testimoniato da mille altri indizi: i teatri che chiudono, Pompei che si sbriciola, i musei che tengono i capolavori nelle cantine, l’università che perde iscritti...

Di questo disastro, la società civile si sta cominciando ad accorgere. Infatti sono numerose le iniziative che su vari fronti cercano di sottolineare la centralità della cultura, denotando una sensibilità sempre più diffusa. Un sommario elenco rende conto della ricchezza di proposte, ma anche della dispersione e delle differenze tra queste diverse campagne.

- il Manifesto per la cultura del "Sole 24-Ore", lanciato nella primavera 2012: è l’iniziativa di maggior respiro, e la più clamorosa, anche perché vede l’impegno del quotidiano della Confindustria; gli imprenditori italiano hanno dunque compreso – sembrerebbe – il valore della cultura per l’economia e lo sviluppo; peccato che un governo certamente affine come quello presieduto da Mario Monti non abbia in alcun modo accolto questa indicazione; e che anzi il suo Ministro per i Beni Culturali, Lorenzo Ornaghi, sia stato considerato uno tra i meno efficaci degli ultimi decenni;

- il Manifesto per la sostenibilità culturale promosso da Monica Amari (autrice del saggio omonimo edito da Franco Angeli, Milano, 2012) attraverso il sito www.sostenibilitaculturale.it/: richiede un allineamento a livello europeo dei finanziamenti ai processi culturali basato su un minimo percentuale (1% del PIL) obbligatoriamente imposto, sulla scorta del modello del patto di stabilità e crescita: «Siamo figli di un vulnus, che risale al trattato europeo di Amsterdam del 1997, quello che istituì tre pilastri su cui poi si sarebbe basata la politica dei fondi europei negli anni a venire: i tre pilastri furono la sostenibilità ambientale, quella economica, e quella sociale. Non fu enunciata la sostenibilità culturale».

- la proposta di legge sul libro e sulla lettura, lanciata nel novembre 2012 a BookCity Milano dall’Associazione Forum del Libro: “intendiamo portare avanti questa iniziativa insieme a tutti gli attori della filiera del libro, dagli autori ai lettori, dai bibliotecari agli insegnanti, dai librai agli editori, e a tutti coloro, singoli o associazioni, che sono impegnati sul terreno della promozione della lettura, cui chiediamo di collaborare alla elaborazione delle proposte, arricchendole col loro contributo, di unire gli sforzi e coordinare le iniziative, e di vigilare su come il nuovo Parlamento lavorerà su questi temi”;

- il progetto di un Ministero della Creatività, presente anche nel programma di SEL: nelle parole di Nichi Vendola, «Noi metteremo la cultura e la creatività al centro delle scelte di politica economica del governo, superando l’attuale Mibac e tutte le deleghe oggi sperse nei mille rivoli di altrettanti Ministeri e varando il “Ministero per la creatività”, per uscire dalla trappola della sola conservazione dei beni culturali ai fini della promozione turistica e introdurre l’idea d’industria creativa»;

- le Primarie della Cultura (ww.primariedellacultura.it) lanciate dal FAI (Fondo Ambiente Italiano) nel gennaio 2013: quindici proposte, con la richiesta ai cittadini di sceglierne tre, votando via internet, per farle inserire nei programmi elettorali delle varie forze politiche; hanno votato decine di migliaia di cittadini, la proposta che ha ottenuto maggiori consensi è quella di destinare almeno l'1% dei soldi pubblici alla cultura, in linea con quanto accade in altri paesi europei (la stessa proposta era stata lanciata alle Buone Pratiche del Teatro a Mira nel 2005 dalla webzine Ateatro (http://www.trax.it/olivieropdp/buonepratiche.asp), senza particolare esito);

- il manifesto “Ripartire dalla cultura”, lanciato da diverse associazioni (tra cui Federculture, Aib, Icom, Fai, Legambiente, Italia Nostra, Mab, Anai, e ANCI, Upi, Conferenza delle Regioni, Touring Club, Federturismo) il 14 gennaio 2013 e ripreso sulle pagine della “Repubblica” il 16 febbraio 2013 (http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni2013/2013/02/15/news/appello_associazioni_alla_politica_ripartire_dalla_cultura-52556479/); ha prodotto “Cinque punti” da far sottoscrivere ai candidati alle elezioni;

- la proposta di istituire “un vero ministero della Cultura”, lanciata da Ernesto Galli della Loggia e Roberto Esposito: “La crisi in cui è entrata l'Italia con l'inizio del XXI secolo non è (o non è solo) una crisi economica, politica, istituzionale e quindi sociale. È prima di tutto una crisi d'identità e cioè in definitiva una crisi culturale. È innanzi tutto venuto meno, infatti, quel fattore costitutivo di ogni identità personale e collettiva che è la consapevolezza di ciò che lega e, legando, tiene insieme cose differenti”. La creatività, la produzione di cose materiali, spiega Galli della Loggia, “non nasce dal nulla. Discende per mille tramiti da un articolatissimo substrato di gusto, di sensibilità, di idee. Nasce dalla cultura. (..) Solo appropriandoci nuovamente di questo patrimonio, solo ripensandolo e rianimandolo di propositi nuovi, sarà possibile riprendere il cammino uscendo dalla paralisi odierna. Sarà possibile rimettere al centro dell'attenzione il significato e il destino della nostra vita collettiva. Aprirci al futuro.” (“Corriere della Sera”, 28 gennaio 2013);

- la Lettera aperta sul futuro della cultura, pubblicata sull’Huffington Post il 5 febbraio 2013 (http://www.huffingtonpost.it/massimo-bray/la-cultura-prima-di-tutto_b_2623041.html), con l’obiettivo di «attirare l’attenzione della politica sulla necessità di un Ministero che si occupi anche del sostegno del contemporaneo in tutte le sue espressioni creative. L’idea di impresa culturale è centrale: un’impresa che produce lavoro, ricchezza e, in più, materia per riflettere e per essere (con tutte le sue sfaccettate differenze e pluralità) (...) Un punto essenziale, forse primario, nell’agenda del nuovo Ministero potrebbe/dovrebbe essere (...) quello di constribuire a fissare le regole per una defiscalizzazione delle sponsorizzazioni per le attività culturali»;

- la Lettera aperta ai candidati alle elezioni politiche 2013 che chiede “Un voto per promuovere la lettura” (http://legge-rete.net/e-leggiamo/), lanciata nel febbraio 2013;

- la riflessione sulla cultura come bene comune, condotta in particolare al Teatro Valle Occupato, con la consulenza di giuristi come Stefano Rodotà; il 14 febbraio la Commissione Rodotà, istituita nel 2007 al fine di studiare la riforma delle norme del Codice Civile in materia di beni pubblici (http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.wp?previsiousPage=mg_1_12_1&contentId=SPS47624), si è riunita proprio al Teatro Valle Occupato per proseguire il lavoro iniziato sei anni fa;

- le dieci “Riforme a costo zero” del Centro studi Silvia Santagata-Ebla (www.css-ebla.it), che sta monitorando per “Il Sole 24 Ore” i programmi della varie forze politiche e associazioni in questa campagna elettorale.

Accanto a queste iniziative, ne sono certamente in corso molte altre, a testimonianza di una sensibilità diffusa e di una esigenza condivisa: recuperare la centralità alla cultura, come indispensabile motore di sviluppo civile (in accordo con l’art. 9 della Costituzione) ed economico. Partono da associazioni, gruppi, singoli, e hanno coinvolto decine di migliaia di persone. Tutti costoro si fanno portavoce di un diffuso bisogno di cultura, come dimostrano l’affluenza a mostre e festival letterari e filosofici.

Al di là del “collo di bottiglia” della sostenibilità economica, bisogna però notare che nell’elenco compaiono proposte assai diverse nelle intenzioni, negli ambiti di intervento e negli obiettivi; e che queste proposte non sono necessariamente compatibili tra loro. Molte di esse hanno suscitato un abbozzo di discussione, che però è rimasta confinata agli addetti ai lavori (o meglio, alla cerchia di riferimento, più o meno ampia, di ciascuno dei proponenti). L’eco nel dibattito politico è stato pressoché nullo, anche perché non si è sviluppata una discussione comune, per verificare la compatibilità delle proposte (e delle loro fonti di ispirazione).

Di fronte a un panorama così frastagliato, la politica può limitarsi a lanciare – se va bene – parole d’ordine nobili, generiche e condivisibili da tutti. E poi il Palazzo può continuare a gestire il settore così come ha fatto finora: tagli progressivi dettati da necessità inderogabili; finanziamenti gestiti in maniera spesso clientelare, attraverso meccanismi corporativi; vuoto assoluto di progettualità, se non quella dettata dalle emergenze.

Senza un fronte comune in grado di coniugare sviluppo e cultura, di proporre e verificare le “buone pratiche della politica”, le singole proposte – tutte dettate dalla più sincera buona volontà e in sé meritevoli – rischiano di rimanere velleitarie. Una casta impermeabile alle sollecitazioni della società civile, in questo come in altri ambiti, continuerà ad andare per la sua strada, senza timori di inciampi.

 

domenica 17 febbraio 2013

PASSANDO PAROLA: RUBIAMO A DARIO FO


RUBIAMO, E QUINDI CONDIVIDIAMO, CON PIACERE,
A DARIO FO, PASSANDO PAROLA:
 
In ognuno dei paesi della Scandinavia si spende quattro volte di più di quanto succeda da noi. Il numero delle persone locali che va a visitare un museo, una cattedrale o partecipa a una manifestazione culturale in Italia si ritrova ancora agli ultimi posti della classifica, e la cosa è stupefacente quando si pensa che sono migliaia i borghi e le città italiane che possono offrire un gran numero di luoghi d’arte di grande valore, ma il 50% e più di quelle popolazioni non è nemmeno informata su quello che possiede.

Nella Francia del XVII secolo il primo spettacolo con cambi di scena a vista fu impiantato dai nostri comici dell’arte nel teatro del Palazzo Reale di Enrico IV a Parigi dove il palcoscenico era stato smontato completamente per ricostruirci tutte le nuove strutture in uso dalla graticcia alle quinte fino agli scorrevoli per le fiancate e le scenografie.

Il pubblico che gremiva il salone del re rimase attonito osservando una scena di bosco che si trasformava, con rapidità inaudita, in un palazzo a più piani e di lì a poco, in una nave a grandezza quasi naturale che navigava fra le onde. Sulle tavole del gran palco si esibivano maschere dagli abiti sgargianti e personaggi femminili che non erano interpretati da ragazzi travestiti – come allora era in uso in tutta Europa - ma da donne vere che per dimostrare la loro autentica natura con pretesti comici spesso si spogliavano nude in scena. Che teatro!
La maschera di Arlecchino fu inventata proprio a Parigi in quegli anni e veniva interpretata da un attore che si chiamava Tristano Martinelli, di mestiere giovane notaio. Si scriveva i testi da sé e pubblicò un saggio famoso dal titolo “Composizione della Retorica”. Egualmente il capocomico della compagnia era un letterato: Francesco Andreini, scrittore e filosofo. Anche Isabella, sua moglie, bellissima... che fece innamorare di sè il re – anche lei si scriveva i testi da sola.
E numerosi altri attori erano scienziati e musici nella compagnia: questo per sfatare il luogo comune che i comici dell’arte fossero attori scavalcamontagna, guitti di bassa cultura dotati solo di un gran senso del teatro.
Scaramouche, maestro di Molière, era anche musico in grado di suonare tutti gli strumenti in voga nel ‘500. Dagli ottoni alle viole, dalle chitarre ai flauti. E naturalmente scriveva opere musicali che poi riusciva a eseguire da solo, passando da uno strumento all’altro. (grammelot)

Oggi, molti ragazzi e ragazze, si cimentano nel mestiere del commediante badando soprattutto alla dizione, alla vocalità e al gestire; e spesso dell’autore e della ragione che l’ha portato a scrivere quel testo sanno poco o niente. Ci sono sì alcune accademie di teatro come la Paolo Grassi di Milano, che si preoccupano di formare culturalmente i giovani che lì si preparano a montare in scena. Lo stesso avviene alla scuola Silvio D’Amico di Roma e all’Accademia Nico Pepe di Udine ma sono solo casi eccezionali. Bisognerebbe imparare da certe scuole d’Europa dove l’attore è condotto ad essere informato non solo su quello che va recitando ma sulla situazione politica, culturale religiosa del paese in cui si svolge l’opera e dell’autore, soprattutto, che l’aveva composta. Come si può mettere in scena e recitare l’Amleto, per esempio, se non ti accorgi che la soluzione di ambientare l’opera in Danimarca, fu soltanto uno scaltro espediente di Shakespeare per poter trattare della situazione che si viveva in Inghilterra senza cadere nelle maglie della censura? E’ ovvio che l’intento era poter trattare liberamente della corte di Elsinòre per raccontare di Londra, della sua regina, della sua corte e delle basse manovre di potere che là si orchestravano. Ma ancora bisogna essere informati sui conflitti sociali e politici del tempo, sulla cultura, sui movimenti, sulle trasformazioni, la tensione sociale e il linguaggio dei protagonisti. Inoltre, essere informati del fatto che nella corte inglese e nelle università di Cambridge e Oxford si parlava correttamente il francese e anche l’italiano e che in quel tempo si stava compiendo proprio una trasformazione culturale senza eguali. Forse è la prima volta che il nome di una regina è legato a un movimento culturale, infatti la poesia e il teatro che là si producevano venivano comunemente definiti elisabettiani. Gli autori famosi che mettevano in scena ogni anno in Inghilterra commedie tragedie e satire erano più di 50. A questi bisogna aggiungere gli autori che preferivano rimanere anonimi e gli altri di cui si sono perduti i testi e anche i nomi.

 Egualmente numerosi erano i teatri che rinnovavano il loro repertorio per un pubblico straordinariamente vasto, nello stesso tempo in gran numero erano gli spettacoli e le compagnie che li mettevano in scena. Tutti gli intellettuali, malgrado “l’assoluta tolleranza” dichiarata dal potere, si trovavano spesso nelle carceri a scontare anni di galera per aver offeso la dignità dei regnanti trattando delle loro malefatte sia sul piano delle appropriazione indebite che della falsa morale che esprimevano. Fra questi c’erano Marlowe, Johnson e Shakespeare al quale, in seguito alla messa in scena di Misura per misura, il re Giacomo I ordinò di non scrivere più alcun testo di teatro se non voleva rischiare la vita.
E a proposito del coinvolgimento c’è un particolare atteggiamento che esprimono molti intellettuali che si atteggiano ad eruditi; mi capita spesso di sobbalzare ascoltandoli pronunciare sentenze come questa: “L’arte deve essere al di sopra delle parti e soprattutto chi fa teatro deve evitare ogni coinvolgimento politico e morale di sorta nel suo operare”.
Costoro dimostrano di vivere immersi in un beato clima di presunzione e di ignoranza soprattutto riguardo alla struttura scenica delle opere teatrali. Basta dare una sbirciata alla storia del teatro cominciando dai greci per scoprire che tutte le antiche opere satiriche che ci sono pervenute a cominciare da Aristofane a finire con Luciano di Samosata hanno come base degli avvenimenti raccontati una profonda drammaticità politica.

L’esempio più convincente è senz’altro quello de Le donne al parlamento scritto, recitato e cantato da Aristofane e dalla sua compagnia. La commedia prende l’avvio da una strage subita dall’esercito ateniese nella guerra contro la città di Siracusa: gli ateniesi vengono battuti e nella ritirata via mare le loro navi in fuga vengono affondate e i pochi uomini che tentano di salvarsi a nuoto saranno trafitti uno ad uno dagli arcieri siculi. Le spose e le madri di Atene preso atto che nella città fra i maschi erano rimasti soltanto bambini e vecchi, decisero di salire tutte insieme al Parlamento e creare un governo di sole donne. “Di certo – gridavano a gran voce - saremo in grado di fare meglio di loro, dei nostri uomini, che hanno portato se stessi alla morte e la città alla rovina.
La prima legge che noi voteremo all’unanimità sarà quella che delibera che tutti i possedimenti ed il denaro saranno messi in comune e amministrati da noi donne."
Ogni guerra verrà bandita e, cacciato dalla città ogni abitante che pretenda la creazione di una difesa militare. “Certo - disse una delle donne più ascoltate - si comincia sempre col preoccuparsi della difesa, poi si crea un nemico e si invade la sua città prima che lui faccia egualmente con la nostra"...
 e ZAC! siamo di nuovo alla strage! Chi sosterrà il motto che ‘dobbiamo difendere la pace quindi prepariamoci alla guerra’, non avrà più diritto di parola nei pubblici dibattiti per tutta la sua vita. L’atto fondante di tutta la nostra società sarà l’amore. Sceglietevi la sposa o lo sposo che volete ma senza corruzione in denaro e altre truffalderie.
Ognuno dovrà saper leggere scrivere e far di conto, a cominciare dalla più tenera età...
Il canto e la danza saranno parte fondamentale della nostra vita, danzeremo nei matrimoni, nei battesimi e perfino nei funerali... ognuno imbracci il proprio strumento e guai chi stona!”

Quello che abbiamo registrato non tenetevelo per voi, ma passate parola, passate parola.....